A Pisa
nella prima centrale radio a onde lunghe inaugurata nel 1911 dal premio Nobel
Da decenni regna l’abbandono: servono 2,5 milioni di euro per recuperarla
Pubblicato il 10/12/2017 di MARCO MENDUNI INVIATO A PISA
«Io parlo
e dico che è uno scandalo che non vogliano lasciare la memoria della stazione
radio più potente che mio padre aveva costituito in Europa». La voce sale di
tono e l’aplomb da principessa di Elettra Marconi si scompone per qualche
istante e si gonfia di indignazione.
Ha
ragione lei. La stazione radiotelegrafica di Coltano, quartiere di Pisa, sperso
nella campagna coltivata e strappata al destino di palude, è una rovina. Per
decenni è stata la capitale di un mondo, quello delle telecomunicazioni.
Segnali e parole che volavano nell’etere, attraverso il grande impianto voluto
e realizzato da Guglielmo Marconi con le allora avveniristiche apparecchiature
costruite dai cantieri Marconi di Genova.
Ora tutta
l’area è recintata e ci sono grandi cartelli gialli di pericolo. Le finestre
sono state murate, ma qualcuno ha sfondato i mattoni. Il tetto è crollato in
più punti. La facciata è deturpata dalle scritte con lo spray blu: «Vale 6
tutto x noi». Non è difficile superare gli sbarramenti e scivoliamo dentro.
Tutti gli ambienti di questi 600 metri quadri che custodivano i segreti della
tecnologia all’epoca più all’avanguardia nel mondo sono ingombri di
macerie.
C’è anche
un water abbandonato. La pioggia e le intemperie hanno sbreccato gli intonaci,
il mattone è rimasto nudo. Qualcuno, qui dentro, ha anche dormito.
Il premio
Nobel per la fisica inaugurò il centro radio di Coltano, insieme al re Vittorio
Emanuele III, nel novembre 1911. Uno dei primi telegrammi al direttore del New
York Times: «19 novembre 1911. I miei migliori saluti trasmessi per telegrafo
senza fili dall’Italia in America. Pisa ore 5.47 pom».
I
tedeschi in ritirata alla fine della guerra minarono e fecero saltare le enormi
antenne alte 250 metri e un’altra palazzina di macchinari. La palazzina Marconi
se la cavò con pochi danni. Da lì, però, un lento inesorabile degrado: una
scuola, un cinema, delle residenze, poi dagli Anni Settanta il nulla.
Ricordate
le immagini dei film in cui le eleganti signore degli Anni Trenta parlavano al
telefono in crociera sui transatlantici? Tutte le conversazioni del mondo
passavano per Coltano. Da qui passò il segnale con cui Marconi accese le luci
della gigantesca statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, il 12 ottobre
1931, in occasione delle celebrazioni per i 439 anni della scoperta
dell’America. La conferma, ma stavolta dalla terraferma, dell’esperimento del
26 marzo 1930, alle 11,03: dalla nave Elettra ancorata a Genova presso Yacht
Club italiano, Marconi inviò nell’etere gli impulsi che, percorse 14 mila
miglia, accesero in Australia le tremila lampadine del Municipio di
Sydney.
Del
recupero della centrale Marconi si parla da decenni. Una storia di promesse e impegni
disattesi. Di battaglie, come quella di Italia Nostra. Gli sforzi si erano
moltiplicati nel 2009, il centenario del Nobel. Ancora una volta non se n’è
fatto niente. La prima, piccola svolta, è arrivata nelle ultime settimane. Un
primo accordo tra il demanio (proprietario del bene) e il Comune di Pisa. Una
concessione provvisoria e 100 mila euro per mettere l’edificio in sicurezza e
completare la progettazione del restauro, preludio alla concessione definitiva
e gratuita per lo sfruttamento culturale e turistico del bene. Però ci vogliono
i progetti, i piani di valorizzazione e i soldi: «Il progetto - spiega
l’assessore ai Lavori pubblici Andrea Serfogli, che da anni si occupa del caso
- c’è, va integrato ma esiste. Per realizzarlo servono due milioni e mezzo di
euro, il Comune, pur in questi periodi di finanze stentate, è disposto a
investire la metà». Tradotto: anche una partnership con un privato sarebbe
manna dal cielo. La svolta, comunque, pare davvero arrivata. Intanto la pro
loco guidata da Antonio Dell’Omodarme ha recuperato la Villa Medicea del borgo
e iniziato ad allestire un museo su Marconi e le telecomunicazioni con la
tecnologia esposta nelle bacheche.
«Nel
frattempo - sospira la figlia Elettra - basterebbe una pietra, una targa, per ricordare
che lì mio padre costruì una delle prime centrali, una delle più grandi del
mondo». Rivela «C’era una targa in inglese, neppure quella c’è più». I
testimoni confermano: fu portata via all’inizio degli Anni Duemila con la
promessa di restaurarla e ricollocarla entro due mesi: «Non se n’è mai saputo
più nulla».
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